Tensioni commerciali e debolezza della domanda contribuiranno a peggiorare il quadro economico, soprattutto per le PMI che esportano negli USA e per alcuni settori: automotive, tessile-abbigliamento, beni alimentari e bevande, industria farmaceutica. Al contrario, è attesa in riduzione la probabilità di default (PD)
di settori meno legati alle dinamiche del commercio internazionale, fra cui i servizi per il turismo, hospitality e ristorazione, ICT e utilities.
Nel complesso, la PD media salirebbe al 5,5% nello scenario macroeconomico ritenuto più probabile
Il rischio di credito per le imprese non finanziarie italiane, espresso dalla probabilità di default (PD), si è attestato al 5,3% a marzo 2025, il dato più basso da dicembre 2020. A dirlo è Cerved Rating Agency, l’agenzia di rating italiana specializzata nel merito creditizio delle imprese e nella misurazione delle performance ESG. Nel corso del 2024 infatti è aumentata la quota di aziende che hanno migliorato la loro posizione: il 17% degli aggiornamenti creditizi è stato classificato come unpgrades contro l’8% dell’anno precedente. Sono inoltre cresciute le conferme di rating di credito (78% contro 69%), anche grazie al minor costo del denaro e una maggior salute dei bilanci delle imprese. Nei prossimi 12 mesi, tuttavia, ci si attende un peggioramento che porterebbe la PD media al 5,5% nello scenario ritenuto più verosimile, quello in cui le politiche protezionistiche e le persistenti tensioni internazionali non si acutizzino e cresca la spesa riconducibile al PNRR.
“A marzo 2025 la probabilità di default delle imprese italiane ha raggiunto il livello più basso dal 2020 – commenta Fabrizio Negri, CEO di Cerved Rating Agency –. Le aziende italiane sono riuscite a fronteggiare con successo l’incertezza derivante da stress macroeconomici consecutivi, come le tensioni geopolitiche, il restringimento delle condizioni di finanziamento e l’andamento inflattivo. Tuttavia, nei prossimi mesi la probabilità di default potrebbe aumentare, a seguito di tensioni commerciali e una domanda debole, elementi che potrebbero colpire in particolare le imprese che esportano negli USA”.
Gli scenari delineati nello studio tengono conto di dinamiche commerciali, tensioni geopolitiche, inflazione, politiche monetarie e fiscali. Nello scenario base, ritenuto più verosimile, la probabilità media di default delle imprese italiane sale fino a circa il 5,5% ma, nonostante le accentuate differenze tra i settori produttivi, non raggiunge i livelli di dicembre 2023 (6,2%), il dato più alto degli ultimi 10 anni. In questa ipotesi, i dazi statunitensi nei confronti dell’UE si mantengono vicini al 10% per i prossimi 12 mesi. Ciò spinge molti Paesi a ripensare le proprie strategie commerciali attraverso dazi reciproci. Le imprese reindirizzano la propria produzione verso nuovi mercati con effetti destabilizzanti sul commercio mondiale e sulla fiducia di famiglie e imprese.
Tuttavia, l’impatto sull’Italia nel complesso è mitigato da una dipendenza inferiore di alcuni settori dall’export. Ad esempio, il settore terziario, che rappresenta oltre il 73% dell’economia italiana, subisce nel breve periodo effetti indiretti e minori. Sul fronte degli investimenti, il PNRR entra nella sua fase decisiva con spese pianificate per il biennio 2025-2026 pari a circa 108 miliardi di euro, mentre il piano europeo per il riarmo potrebbe attivare una spesa addizionale di oltre 800 miliardi di euro a livello europeo, con effetti positivi su alcuni settori italiani.
Entrando più in dettaglio nello scenario base, i settori che vedono un maggior aumento della PD sono quelli ciclici, di consumo e discrezionali, più esposti alla congiuntura economica e all’export verso gli Stati Uniti. Fra questi, l’automotive (la cui PD media passa dal 5,2% di marzo 2025 al 5,7% di marzo 2026), il tessile-abbigliamento (da 5,7% a 6,1%), i beni alimentari e bevande (da 4,6% a 4,9%) e il farmaceutico (da 4,2% a 4,5%). Al contrario, è attesa in riduzione la PD di settori meno legati alle dinamiche del commercio internazionale, fra cui i servizi per turismo, ospitalità e ristorazione (dall’8,7% del marzo 2025 all’8% del marzo 2026), ICT (da 4,6% a 4,4%) e utilities (da 4,2% a 4%). La probabilità di default per le grandi imprese è prevista in tenuta attestandosi al 3,1% a marzo 2026, mentre per le PMI la PD aumenta da 6,3% del 2025 a 6,6% del 2026.
Gli altri due scenari delineati dal Credit Outlook 2025 sono meno probabili ma possibili. In quello peggiorativo il rischio di default medio in Italia raggiunge il 6,5%, il livello più alto mai registrato dall’Agenzia. Ciò accade nel caso di una prolungata guerra commerciale globale, che causa una recessione sia negli Stati Uniti che nell’UE. L’inasprimento del conflitto in Ucraina contribuisce inoltre a far ripartire i prezzi dell’energia, con un rialzo dell’inflazione e un irrigidimento della politica monetaria. Infine, una parziale attuazione di PNRR e ReArm EU non supporta il recupero di fiducia di consumatori, imprese e investitori.
In uno scenario ottimistico la PD media invece scende al 5,1%, grazie all’abbandono della linea dura USA sui dazi e alla stipula di una tregua duratura o pace tra Russia e Ucraina, con una conseguente ripresa della fiducia dei mercati e degli operatori economici, un calo dell’inflazione e dei tassi d’interesse.
Focus sulle imprese italiane esportatrici negli USA
Considerata la rilevanza dei dazi USA, è stato analizzato un campione di circa 700 imprese italiane con rating emesso da Cerved Rating Agency che esportano verso gli Stati Uniti. Si tratta di aziende che fatturano circa 90 miliardi di euro e impiegano più di 190.000 dipendenti; i settori maggiormente rappresentati sono l’industria meccanica, l’agrifood, il tessile e moda e la lavorazione dei metalli.
Nel complesso queste aziende mostrano una solidità finanziaria superiore alla media italiana, con una PD media nettamente inferiore (3,5% contro 5,3%). Tuttavia, secondo le stime, l’esposizione ai dazi USA farà crescere in maniera maggiore il loro rischio di credito nei prossimi 12 mesi; in particolare le PMI, meno strutturate da un punto di vista patrimoniale e con margini di profitto più ridotti, vedono un aumento di rischiosità molto superiore a quello di aziende di simili dimensioni ma non esposte al mercato USA (+8% contro +3%). Per le grandi imprese, invece, la variazione sarà rispettivamente +4% (per le esportatrici) e +3% (non esportatrici).
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