In vista del Giubileo degli imprenditori abbiamo posto alcune domande su imprese, lavoro, Europa, speranza a Matteo Borsani, direttore Affari europei di Confindustria. “L’Europa, anzi l’Unione europea, è sempre stata fucina di speranza fin dal suo concepimento”, e cita il “Manifesto di Ventotene”. “Oggi – afferma ancora – corriamo il rischio di cedere alla tentazione dell’agio, del conservare quello che abbiamo costruendo muri, rifiutando l’altro, girando la faccia dall’altra parte rispetto a chi ci chiede una mano”.
Nei giorni 4 e 5 maggio si svolge a Roma il Giubileo degli imprenditori. Si tratta di uno degli importanti appuntamenti fissati nell’Anno santo. Anche in questo caso il programma iniziale è stato rivisto, ma l’occasione rimane importante anche per riflettere con chi, per “mestiere”, si occupa di impresa. Ne parliamo con Matteo Borsani (nella foto), direttore Affari europei di Confindustria (il suo ufficio, a Bruxelles, dista pochi passi dalle istituzioni Ue), membro del Comitato economico e sociale europeo e professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
(Foto Confindustria)
Direttore, cosa significa “stare dalla parte delle imprese oggi a Bruxelles”?
Negli ultimi anni, e particolarmente durante il mandato della precedente Commissione (2019-2024) stare dalla parte delle imprese ha voluto dire stare in una posizione scomoda, perché voleva dire stare dalla parte di chi era percepito contro la protezione dell’ambiente, contro i diritti sociali e a favore dello “status quo”, di privilegi vecchi e ingiustificati. Oggi per fortuna questa percezione, falsa da sempre, sta lentamente cambiando. Per me, stare dalla parte delle imprese, vuol dire stare dalla parte di chi lotta ogni giorno per mantenere posti di lavoro in Europa e per crearne di nuovi e di qualità.Vuol dire stare dalla parte di chi è orgoglioso di vivere nella zona con i più alti standard di protezione sociale e ambientale al mondo, e di chi vuole mantenere questa leadership, rimanendo al contempo competitivo rispetto ai beni o ai servizi che produce. Anche questo non è facile, ma l’alternativa è abbandonarsi al pessimismo, restare passivi e lasciarsi cadere le braccia… E nella mia esperienza a Bruxelles, ormai più che ventennale, non ho mai conosciuto un imprenditore pessimista o rassegnato.
Quale è, secondo lei, il valore aggiunto delle imprese per la società di oggi? L’impresa “fa comunità”?
Risponderei a questa domanda in due parti: una più “sociale” e una più “personale”. Rispetto alla parte sociale, nel senso che vede l’uomo come inserito in un contesto più largo, popolato da suoi simili, le imprese sono, secondo me, il vero “collante” della società perché, conti alla mano, senza il contributo delle imprese (si badi bene, non solo quelle piccole e medie, ma anche quelle grandi e “globali”) il livello di vita che abbiamo in Europa, e particolarmente in Italia, non sarebbe sostenibile. Ospedali, scuole, forze dell’ordine o della protezione civile, senza le imprese non potrebbero mantenere il livello di efficienza che hanno oggi. Questa è una prima parte della mia risposta.
E la seconda, più personale?
Rispondo scendendo a un livello personale: nel senso che guarda all’uomo come singolo. Qui possiamo dire che il valore aggiunto delle imprese oggi concorre a dare un senso al vissuto quotidiano di chi ci lavora, indipendentemente dal ruolo che vi ricopre. Questo contribuisce all’equilibrio, alla serenità e alla determinazione di ognuno, non solo evitando derive pericolose, ma anche dando contenuto e “direzione” alla vita. Certo, questo dipende da ognuno, non è mai un risultato scontato né tanto meno automatico, ma, forse anche per questo, per me vale molto.
Il tema del Giubileo è la speranza. Cosa vuol dire seminare speranza nel suo lavoro quotidiano?
Mi sembra che questa domanda riguardi più la vita vista dalla “capitale dell’Europa” in generale. Pensandoci, direi che l’Europa, anzi l’Unione europea, è sempre stata “fucina di speranza” fin dal suo concepimento. Pensiamo ad esempio al famoso “Manifesto di Ventotene” scritto durante il confino, in condizioni umane oggettivamente disastrose, e mentre l’Europa era sconvolta da una guerra che aveva causato milioni di morti. Ebbene, Spinelli e Rossi, e poi Colorni, in questa situazione pensarono che la risposta alla domanda “come sperare in un futuro migliore? Su quali basi costruirlo?”, fosse l’Europa, anzi una federazione di Stati, un traguardo al quale non siamo ancora arrivati.
E oggi?
Negli ultimi anni, l’Europa è giunta a un bivio: siamo abbastanza integrati da non poter più tornare indietro, se non pagando un prezzo molto alto (basti guardare al Regno Unito), ma non siamo ancora abbastanza consapevoli che possiamo migliorare o anche solo mantenere quello che abbiamo (e non parlo solo di benessere materiale) solo restando uniti. Oggi corriamo il rischio di cedere alla tentazione dell’agio, del conservare quello che abbiamo costruendo muri, rifiutando l’altro, girando la faccia dall’altra parte rispetto a chi ci chiede una mano. Non ho dubbi su come avrebbero reagito i “padri fondatori” sulle cui spalle oggi noi sediamo, e grazie ai quali possiamo guardare più lontano. Non dobbiamo perdere questo slancio, non dobbiamo perdere la speranza. L’Europa può aiutare anche in questo. Quello che bisognerebbe fare, però, è mantenere questo atteggiamento senza negare i problemi, le contraddizioni, i limiti dell’attuale situazione politica e istituzionale europea. Questa è la cosa più difficile, ma solo così possiamo cambiare e migliorare. L’Europa è sempre andata avanti anche grazie, e non nonostante, le crisi. Pensiamo all’ultima, quella della pandemia, che ha portato dopo decenni di sterili dibattiti a un debito comune europeo. Avere speranza nel futuro non vuol dire essere naif, ma avere la concretezza e la pazienza di portare avanti tutte quelle azioni necessarie a proseguire un cammino comune in grado di garantire il benessere di tutti.
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