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Esiste un’etica in Europa? Davanti alla deriva bellicista del Rearm Europe è utile ripercorrere l’evoluzione-involuzione culturale del Vecchio Continente (Laura Tussi)


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In un clima geopolitico sempre più segnato da tensioni, conflitti e spese militari in costante aumento, l’Unione Europea sembrava aver imboccato una strada di progressivo allineamento alla logica della ri-militarizzazione. Il progetto Rearm Europe, presentato nei mesi scorsi dalla Commissione europea come strumento per rafforzare l’industria bellica continentale e potenziare la capacità di produzione di armamenti, ha segnato un punto di svolta nella traiettoria politica dell’UE. Il piano, che prevedeva ingenti investimenti per rifornire gli arsenali svuotati dal sostegno militare all’Ucraina e rafforzare l’autonomia strategica europea, è stato tuttavia bloccato dalla commissione giuridica del Parlamento europeo, che ha sollevato dubbi profondi sulla sua legittimità.

Il progetto, formalmente denominato “European Defence Industry Programme (EDIP)” e soprannominato Rearm Europe, nasceva con l’obiettivo dichiarato di “rendere il continente pronto a un’economia di guerra”. A fronte del conflitto in Ucraina e delle pressioni statunitensi perché l’Europa aumenti il proprio contributo alla difesa dell’Occidente, Bruxelles ha proposto un pacchetto da 1,5 miliardi di euro, con finanziamenti diretti alle imprese del settore bellico per incrementare la produzione di munizioni, missili e altri armamenti.

La logica sottostante era chiara: trasformare l’UE in un attore militare a pieno titolo, riducendo la dipendenza dagli Stati Uniti e dalle importazioni esterne. Un’iniziativa che, secondo i suoi promotori, avrebbe contribuito alla “sicurezza comune” e alla “sovranità strategica” dell’Unione. Ma non sono mancati sin dall’inizio i segnali d’allarme.

La commissione giuridica del Parlamento europeo (JURI) ha però posto un freno deciso al progetto. In un parere vincolante, ha dichiarato che Rearm Europe viola l’articolo 41.2 del Trattato sull’Unione Europea, il quale esclude esplicitamente che le spese militari possano essere finanziate dal bilancio comune dell’Unione. In altre parole, finanziare direttamente la produzione di armi con fondi europei rappresenterebbe un passo oltre il quadro giuridico attualmente in vigore.

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Questa bocciatura rappresenta un colpo durissimo per la Commissione von der Leyen, che aveva fatto della politica di difesa uno dei pilastri della sua seconda parte di mandato, e per tutti quei governi – Francia e Polonia in testa – che spingono da tempo per un’Europa più “armata”.

La battuta d’arresto ha riacceso il dibattito su quale debba essere l’identità dell’Unione Europea: comunità di pace o blocco militare? Le critiche al progetto Rearm Europe non sono solo di natura giuridica, ma anche etico-politica. Molti eurodeputati, movimenti pacifisti e organizzazioni della società civile hanno denunciato una deriva bellicista che contraddice i principi fondativi dell’Unione, nata sulle ceneri di due guerre mondiali con l’obiettivo di garantire la pace e la cooperazione tra i popoli europei.

“L’Europa non deve prepararsi alla guerra, ma costruire la pace”, ha dichiarato l’eurodeputata francese Manon Aubry (GUE/NGL), tra le più attive nel contrastare il progetto. Anche rappresentanti dei Verdi e di alcune delegazioni socialiste hanno espresso preoccupazione per la progressiva normalizzazione della spesa militare come strumento di coesione europea, in un contesto in cui i bisogni sociali – sanità, scuola, ambiente – restano spesso sottofinanziati.

Non è ancora chiaro se lo stop decretato dalla commissione giuridica segnerà la fine definitiva di Rearm Europe o se la Commissione cercherà una via per riformulare il piano in modo da aggirare gli ostacoli legali. Ciò che è certo è che si è aperta una frattura tra le istituzioni europee e all’interno degli stessi Stati membri, tra chi vede nella militarizzazione la risposta alle sfide globali e chi continua a difendere un’idea di Europa come promotrice di diplomazia, cooperazione e disarmo.

In un’epoca segnata da guerre e crisi globali, l’Unione Europea si trova dunque a un bivio cruciale: seguire la corrente della militarizzazione globale o recuperare la propria vocazione originaria di progetto di pace. La vicenda di Rearm Europe potrebbe segnare non solo uno stop a un piano specifico, ma l’inizio di una riflessione più ampia sull’anima stessa dell’Europa.

Come si è arrivati a questa deriva bellicista se l’Unione Europea doveva essere a servizio della pace?

L’Italia ha la sua ricchezza ineguagliabile nella pluralità dei suoi centri urbani. E’ stata la prima grande realtà comunale della modernità.
La Francia è stata invece una nazione statocentrica. Derrida ha riflettuto sull’idea di capitale, di caput, di centro, di punto di riferimento. L’Italia è il paese che ha più di ogni altro anticipato questa realtà di esperienze comunali, di policentrismo urbano, e da questo punto di vista l’Italia potrebbe essere un laboratorio importante per l’Europa, perché quest’ultima trova il suo Ethos esattamente nell’essere uno spazio di differenze, di esperienze tra loro diversificate, ossia l’Europa è un ambito al cui interno le differenze che passavano attraverso le grandi esperienze delle città, non hanno mai dato luogo a politiche dell’identità, a strategie identitarie, rigide, tipiche degli stati nazionali. In questa congiuntura si parla addirittura di riarmo europeo. E quindi di tagli apocalittici allo Stato Sociale e in generale alla Scuola e alla Sanità.
Le città in Europa sono sempre state luoghi nei quali le differenze specifiche non hanno mai avviato politiche dell’identità.
A partire dall’epoca medievale e immediatamente successiva all’anno 1000, quando l’aria delle città rendeva liberi, le città sono sempre state luoghi d’incontro, d’incrocio, crogiolo e crocevia tra identità diverse in Europa. Invece, gli stati hanno neutralizzato queste esperienze di meticciamento.
Quanto più le città si ibridavano, divenivano luoghi di incrocio e d’incontro tra esperienze culturali, tanto più gli stati nazionali tendevano a neutralizzare il peso di tali esperienze e determinavano una politica univoca dell’identità nazionale.
La storia d’Italia andrebbe tutta riletta in questa chiave.

L’identità verticalistica e monolitica dello Stato Nazionale in Europa

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Con quello che è accaduto nelle città più importanti si può ricostruire l’Ethos europeo, composto di differenze che nelle esperienze comunali non hanno mai dato luogo a politiche identitarie, mentre nella logica degli stati nazionali hanno determinato conflitti tra identità statali molto forti.
Lo spazio d’incrocio e di incontro tra esperienze differenti nei diversi luoghi urbani d’Europa, crogioli e crocevia di culture, ha determinato sempre un livello di crescita della cultura dei grandi movimenti e delle rivoluzioni di costume e di cultura che in seguito hanno preceduto le rivoluzioni politiche e sociali. I collegamenti tra centri urbani erano trasversali e orizzontali, ossia non gerarchici. La logica identitaria nazionale e statale italiana o degli altri paesi europei è, in qualche modo, una logica che nell’affermare una politica dell’identità ha mortificato le spinte innovative che si davano all’interno e in cui la logica identitaria procede per aggregati di tipo verticalistico, strutturando l’identità in maniera rigida e monolitica, autoreferenziale, centrata su se stessa, opponendosi e svincolandosi dalla prospettiva di un’alterità culturale che però non sta ferma nel sito, nel luogo d’origine, ma che viaggia, compiendo il passaggio a Occidente, modificando se stessa e lo stesso Occidente.

Il concetto di ibridazione e meticciamento delle identità culturali

Gli intellettuali postcoloniali hanno sottolineato soprattutto l’esigenza di concepire identità come sempre contaminate ed ibridate, senza neanche compiere l’apologia postmoderna dell’ibridazione. Questi intellettuali sostengono che la realtà di tutte le culture, delle ibridazioni e del “meticciato”, come dice Umberto Eco, è poco attinente non perché questi fenomeni siano negativi, ma perché, storicamente, sempre , esiste il fenomeno dell’ibridazione, fattore molto più rilevante del pluralismo che assume le culture come delle datità, interpretando la società multiculturale come insieme di “ghetti contigui”, quindi è in realtà un pluralismo statico, che non va oltre un rifacimento della versione della tolleranza, la quale però non ammette nessun tipo di interazione e contaminazione reciproca.
Invece, i teorici postcoloniali non partono dal pluralismo, ma dall’ibridazione e dunque il problema del rapporto tra le culture non è quello della tolleranza reciproca e del riconoscimento, ma il problema vero della nostra nuova realtà sociale è quello della traduzione e transizione tra le culture e le diverse esperienze culturali.
Quindi non è più sufficiente la vecchia teoria della storia Hegeliana che pone l’Europa e l’Occidente come centri di irradiazione del mondo e non basta più la concezione, non imperialistica, ma Kantiana dell’Europa come culla dell’universale. Le categorie universalistiche della modernità politica europea sono simultaneamente indispensabili e inadeguate. L’Europa deve rendersi conto di questo doppio statuto delle categorie del proprio universalismo che per un verso hanno lo statuto dell’indispensabilità, per l’altro dell’inadeguatezza a fronteggiare il mondo contemporaneo.
L’identità o meglio la comunità può nascere non da una pura comparazione tra le culture, ma esistono legami trasversali anche tra diversi orienti e diversi occidenti. La relazione fra le identità non deve essere di tipo verticale come il federalismo leghista attuale, ma le solidarietà sono orizzontali, solidarietà chiasmatiche, come quelle che Habermas chiama solidarietà fra estranei, o solidarietà fra stranieri morali, mentre nella identità nazionale non sono concepite queste tipologie di incontro.

La costituzione europea, che è un ibrido molto insoddisfacente tra la forma trattato che segue la logica di tipo interstatale e intergovernativa, la forma costituzionale, e la costituzione dell’Unione Europea di Nizza, enuncia l’Ethos identitario europeo declinandolo al plurale. E’ questa la ragione per cui non si è ritenuto di includere nessun riferimento a un’unica religione. Vi è un’innovazione terminologica: infatti la carta dei diritti di Nizza cita “i popoli europei” al plurale, non al singolare, sottolineando che l’identità europea nasce dai tracciati e dai percorsi delle diverse differenze e dove più popoli si intendono, non necessariamente le nazioni, ma anche tutte le esperienze culturali, rilevanti, di lunga durata. Hanno il nome legittimo di cultura tutte quelle esperienze con una rilevante durata nel corso del tempo, producendo risultati rilevanti per la comunità da loro organizzata.
I popoli europei non sono tenuti insieme dal collante degli stati nazionali, ma piuttosto sono svincolati da essi.

Laura Tussi

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Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, I Partigiani della pace, EMI Editrice Missionaria Italiana.

Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Resistenza e Nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni.

Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Memoria e futuro, Mimesis Edizioni.

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Con scritti e partecipazione di Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Giorgio Cremaschi, Maurizio Acerbo, Paolo Ferrero e altri





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