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Essere giovani nel regime di guerra globale


Questo testo parte dal bisogno di mettere a fuoco, con un taglio generazionale, alcune riflessioni sedimentate all’interno della residenza di ReSET (Rete per lo Sciopero Sociale Ecologista e Transfemminista), tra le aule di Roma Tre e lo spazio sociale Acrobax, dal 28 al 30 marzo.

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Viviamo in una congiuntura di guerra, che porta con sé un accumulo di crisi, climatica, economica, politica, pandemica e sociale e in cui, attraverso la guerra, si tenta di portare ordine dove questo non c’è.

La guerra è già qui e gli assetti della società vengono riallineati e riordinati in questo senso; lavoro, scuola e università, e così le soggettività che al loro interno abitano, vengono arruolate, sia sul piano materiale che simbolico-ideologico. Il nostro Governo, parte di un blocco reazionario che si esprime sul piano europeo ed extra-europeo, ha reso evidente, fin da subito, la logica binaria e dicotomica della guerra, attraverso la muscolarità di un articolato impianto normativo, anche di carattere emergenziale, che stigmatizza e reprime soggetti e comportamenti “devianti” e “dissonanti” e che, sul piano del discorso pubblico, esalta la nazione e il suo apparato militare e tecnologico.

“Armarsi”, nella logica del ReArm Europe, significa investire in spesa militare a detrimento di quella sociale, significa rilanciare l’industria dell’automotive e colmare il divario tecnologico, economico e commerciale con la Cina e gli Stati Uniti, significa consolidare i confini nazionali ed europei, significa sacrificare la ricerca alle logiche delle imprese che lucrano sulle guerre, i conflitti e le ricostruzioni, significa affamare intere popolazioni e colonizzare i territori e le risorse naturali, significa disciplinare e governare il lavoro, i saperi, le vite.

In questi giorni, a più riprese, le maggiori testate del Paese si rincorrono in un susseguirsi di articoli ed editoriali che attestano la drammaticità della situazione del lavoro e della formazione delle/dei giovani, tutto d’un tratto ci accorgiamo dei fenomeni di esodo dalle nostre città che non hanno mai smesso di darsi.

La condizione del lavoro giovanile

Non è più sorprendente sostenere che gli stipendi in Italia sono al palo da trent’anni, siamo il paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie OCSE. La questione è riemersa con molta forza nell’ultimo periodo, a causa della relativa riduzione del potere d’acquisto e della forte crisi inflazionistica creatasi a partire dalla guerra in Ucraina e dalla pandemia. Come ha scritto Biagio Quattrocchi in un recente articolo pubblicato sul sito clap-info (La guerra dei trent’anni: povertà retributiva e disuguaglianze strutturali in Italia – Clap – Camere del lavoro autonomo e precario), siamo davanti a una guerra di classe che dura da ormai trent’anni, vecchia quanto l’imposizione del neoliberismo come paradigma globale di governance, in cui i salari scendono e salgono solo i profitti per le imprese. Elementi che si enfatizzano e si aggravano sulla linea di frattura sociale del genere, della razza e delle generazioni, dove a emergere è un quadro dalle tinte fosche fatto di precarietà, lavoro povero e gratuito, addestramento alla disponibilità. Un quadro generale a cui si deve aggiungere che di lavoro si continua a morire, anche mentre si studia, come le storie di Lorenzo Parelli, Giuliano De Seta e Giuseppe Lenoci tragicamente ci ricordano. 

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Se si guarda poi la questione a partire da quanto emerge dai documenti (EUROSTAT, 2025) che ritraggono la situazione delle giovani generazioni (dai 18 ai 35 anni) il quadro peggiora ancora. Dal 2019 al 2023 la retribuzione media dei giovani è diminuita del 17%. Questo dato è soltanto la punta dell’iceberg. Per scoprire il mondo della precarietà giovanile bisogna leggere i dati all’interno e far emergere che il 40,9% degli under35 ha un contratto precario, a tempo determinato o stagionale e che molti di questi sono a cortissima durata, con paghe irrisorie; senza contare che il mondo del lavoro giovanile è costituito in ampia parte dal lavoro nero e sommerso, da lavoretti che difficilmente emergono dalle analisi ufficiali. Le statistiche valgono infatti se si ha la “fortuna” di avere un lavoro, perché così non è per il 21,3% che ne è privo.

Sono anche altre le questioni che vengono meno rappresentate: una tra tutte, il fatto che la dinamica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro nel mercato sia un falso mito, poiché se un impiego si trova si deve al capitale relazionale e sociale che si ha a disposizione, quindi anche alle proprie condizioni di partenza. La rete parentale e amicale svolge un ruolo centrale e costituisce il miglior servizio per il lavoro a disposizione dell3 ragazz3. Non deve sorprenderci che questa rete rimane anche l’unica forma di welfare efficace, anche se ormai praticamente esaurita.

Per il resto, come giovane, costituisci “dote” a disposizione dell’appetito di imprese e di agenzie private che operano nel mercato del lavoro.

Oltre ai dati quantitativi, già drammatici, è necessario denunciare la qualità del lavoro e delle condizioni in cui si realizza. Da una parte abbiamo visto consolidarsi come elemento strutturale del lavoro l’economia della promessa e il lavoro gratuito collegato a essa. Due fattori che costituiscono i pilastri dello sfruttamento del lavoro vivo giovanile attraverso forme di ricatto e di presunta premialità che creano una costante aspettativa di miglioramento che difficilmente viene esaudita. Essendo due fenomeni strutturali e agendo subdolamente, risultano completamente introiettati soprattutto dalle nuove generazioni che sono educat3 alla logica del sacrificio, dell’ “innovazione interiore”, sin dalla scuola, con i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO), ma anche attraverso i social, dove veniamo costantemente sommersi dagli standard di successo del capitalismo digitale incarnati dai “cripto-guru”, canoni di successo e competitività che allo stesso tempo sono canoni di muscolarità e machismo.

Uno dei campi dove emerge maggiormente la condizione dello sfruttamento giovanile è il lavoro stagionale. Non è un caso che si apra ad aprile questo dibattito: come ogni anno bisogna fare i conti con l’estremo bisogno della macchina del lavoro estivo di assorbire forza lavoro. Questo è il settore in cui si concentrano con maggior visibilità e intensità le dinamiche di sfruttamento; infatti, è un settore che richiede forza-lavoro poco qualificata, dove i turni sono massacranti, le paghe irrisorie e le tutele sono spesso inesistenti. Quindi i lavori che ci vengono “naturalmente” attribuiti sono quelli in cui il nostro percorso di formazione spesso non ha alcuna importanza e per cui siamo sovraqualificat3. Il lavoro per noi è, oggi, fonte di frustrazione, sfruttamento, alienazione.

Non si tratta di elementi di novità, ma nuovo è l’impianto “culturale” in cui si inseriscono. Il lavoro nel regime di guerra subisce una riconversione non solo economica verso un assetto bellicista, ma compie un salto di tipo culturale di stampo militarista. La guerra è un imperativo che viene fatto pesare sul rapporto di sfruttamento della forza lavoro e il militarismo aiuta a rinsaldare i vincoli patriarcali della produzione e della riproduzione. Se nei conflitti è strategico il controllo delle risorse, il lavoro vivo diventa esso stesso una risorsa strategica da controllare e pacificare. Incorporando i vincoli patriarcali, nella formula beffarda dello sfruttamento lavorativo, ai ragazzi e alle ragazze vengono richiesti costantemente sforzi e sacrificio per sostenere la terra dei padri, a fronte di una costante svalutazione delle proprie conoscenze e con la sola promessa che “in futuro andrà meglio”, cosa che vorremmo poter auspicare ancora, nonostante la guerra sia il nostro presente e l’unico orizzonte visibile.

L’incorporazione dei vincoli patriarcali emerge plasticamente nelle richieste stesse dei datori di lavoro, rivolte non solamente a rafforzare le competenze di “cura, linguaggio, disponibilità, relazione”, ma allo stimolo ad “amare” il proprio lavoro, a percepire l’ambiente lavorativo come “seconda famiglia”, facendo leva su immaginari e sentimenti affettivi forti che servono a tenere salde le catene del controllo.

Mentre si afferma tra noi con forza il sentimento di sfiducia verso il lavoro come strumento di emancipazione e di ascesa sociale, il comando capitalista rinsalda le sue posizioni attraverso il mito del “self-made man”, sappiamo che bisogna primeggiare, emergere e che non importa a costo di chi o a costo di cosa. Chi non ce la fa si merita di perdere e di subire tutte le conseguenze della sconfitta, autocolpevolizzandosi. In fondo, non esiste niente di più simile alla logica della guerra se non questo: non ci sono amici, solo nemici da distruggere.

Resistenze informali

Dove sono finite in questo scenario le forme di organizzazione? Nonostante l’economia della promessa funzioni come blocco per impedire forme di conflitto nei luoghi dello sfruttamento, nonostante vi sia una sfiducia generalizzata nella lotta come motore capace di generare un cambiamento reale, una buona parte dell3 ragazz3 riconosce l’importanza delle strutture sindacali e sente il bisogno di migliorare le proprie condizioni (CNG, 2023). È vero che la difficoltà che si incontra oggi nell’organizzazione delle lotte del lavoro è dovuta alle sue stesse forme, spesso sommerse, frammentate e individualizzate e ai meccanismi del comando sul lavoro vivo che lo imbrigliano, ma bisogna forse tematizzare anche i limiti interni alle organizzazioni sindacali, che al di là di rare eccezioni sono incapaci di riconoscere, intercettare e organizzare tale complessità.

Se guardiamo al fenomeno delle “grandi dimissioni”, negli Stati Uniti ha costruito un meccanismo virtuoso di condivisione di pratiche e regimi discorsivi. Infatti, andando oltre le forme sindacali tradizionali, si sono costituiti forum di socializzazione del malessere legato alla propria condizione lavorativa che attraverso le piattaforme digitali hanno permesso la contaminazione e la proliferazione fino ad assumere il rifiuto del lavoro come rivendicazione principale. Da noi, in Italia, ha assunto più la forma del quiet quitting ed è rimasto principalmente esperienza individuale, senza neanche l’aspirazione a costruire rivendicazioni comuni. Questo ci può far ragionare su due cose: forme di sabotaggio individuali del dominio capitalista si continuano a dare anche laddove non le vediamo esplicitamente e che bisogna costruire spazi dove queste si incontrino per favorire la contaminazione e la collettivizzazione.

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L’altra questione è che il salario rimane una rivendicazione centrale come strumento di riappropriazione del proprio valore, ma assumono altrettanta importanza gli aspetti qualitativi del comando sul lavoro vivo, con la conseguente manifestazione del bisogno di trovare del tempo per la socialità e per sé stessi e della necessità di costruire forme di relazionalità al di fuori delle maglie che la competizione con violenza produce.

Non è un caso che, in questo quadro, in questi ultimi anni siano state agite da3 ragazz3 sempre più significative forme di esodo dal Paese e dal lavoro. L’Italia è un corpo morto, non può dare più nulla, per trovare maggiore prospettiva di crescita professionale, per avere la possibilità di lavorare in settori innovativi, per avere una formazione migliore e per essere pagat3 meglio l’opzione migliore, per chi se la può permettere, è andarsene. Per chi rimane la tragedia è ancora più grande. Lo spettro del presentismo e la crescita delle “passioni tristi” dominano le tonalità emotive della nostra generazione. Siamo di fronte a una perdita di senso; all’antropologia novecentesca non ne è subentrata, per ora, un’altra egemone.

Disciplinamento: un percorso che inizia dalla Scuola

La palestra in cui inizia il processo di disciplinamento dei soggetti rimane la scuola. La scuola non ha più alcun valore perché gli unici saperi che servono ora sono quelli tecnici che si possono apprendere anche attraverso corsi di formazione professionale e in generale nel privato. L’unico ruolo che le viene accordato è quello di riprodurre e fomentare la logica di una guerra culturale per la difesa dei valori dell’identità nazionale e occidentale e di abituare allo sfruttamento spersonalizzante e selvaggio, punto centrale nel programma del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. 

Il processo di dismissione del sapere “in sé” e “per sé” realizzato scientificamente dalle riforme della scuola e del lavoro degli ultimi decenni lo conosciamo bene: la scuola non vale più niente, l3 ragazz3 devono lavorare. Si confonde, volutamente, l’educazione scolastica con la formazione alle “competenze”. Competenze cognitive, sociali, trasversali funzionali non ad accrescere i processi di capacitazione delle persone, non alla promozione e valorizzazione dei vissuti e delle esperienze di ognun3, ma all’addestramento al lavoro. In questo modo studenti vengono mandati a lavorare, senza che vi sia stato un percorso di conoscenza del mondo del lavoro e dei diritti ad esso legati, in segmenti del mercato del lavoro precarizzati, fragili, meno tutelati. Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli, morti qualche anno fa, secondo la normativa vigente, erano soggetti agli adempimenti regolati dall’alternanza scuola-lavoro/PCTO, categoria ampia, diversamente nominata negli anni, che attiene alla relazione stretta tra formazione e inserimento lavorativo, tra formazione pratica e teorica, alla dualità sapere/mercato, che è divenuto elemento centrale di riflessione pedagogica, valutativa e didattica, in un processo di sistematico smantellamento della scuola pubblica, del valore del sapere e dell’ingresso sempre più prepotente delle imprese nel sistema educativo e nella programmazione formativa.

L’Università della guerra

Rimanendo all’interno del processo di smantellamento del valore del sapere, anche l’università non è stata risparmiata da questa guerra. Infatti, da trent’anni a questa parte tagli e riforme ne hanno riscritto completamente la forma verso quella che possiamo definire università neoliberale. Anche il governo Meloni non è da meno e quest’anno ha messo in fila il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario e una proposta di riforma precarizzante sul preruolo voluta dalla ministra Bernini, che per adesso è stata ritirata.

Quando diciamo università neoliberale parliamo di un’istituzione il cui controllo è diventato centrale per il capitalismo ed è stato rinsaldato attraverso un processo di privatizzazione, mercificazione e aziendalizzazione della conoscenza. Modello che risulta l’alleato perfetto del regime di guerra.

Partendo dai percorsi di laurea, questi vengono classificati a secondo della spendibilità sul mercato del lavoro, ancora una volta le lauree umanistiche sono all’ultimo posto, mentre le facoltà più tecniche primeggiano. Attraverso la riduzione dei fondi e l’adozione del New Public Management le università sono indotte a cercare collaborazioni con le aziende del comparto militare (Leonardo) o energetico (Eni), indirizzando il sapere verso gli interessi di profitto e di sviluppo unidirezionale e mascherando questi programmi dietro le tecnologie dual-use, creando veri e propri percorsi di laurea ad hoc per formare futura forza lavoro per queste aziende.

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Nel campo della ricerca negli ultimi anni sono aumentate le borse o i contratti di ricerca finanziati direttamente dalle aziende private, con lo stesso intento. Le università concorrono, pertanto, direttamente alla costituzione del regime di guerra e svolgono un ruolo centrale per accrescere know-how e profitti per le aziende belliche. La svalutazione e il disinvestimento delle istituzioni del sapere tradizionale, la trasformazione delle università in esamifici e la mercificazione delle conoscenze nutrono almeno due fenomeni: la migrazione verso le scuole e le università private, con un forte incremento delle telematiche, che cambiano anche il volto delle città e le forme e l’accesso all’abitare, e la strutturazione di rapporti basati unicamente sulla competizione tra soggetti.

Disciplinamento della vita

L3 ragazz3 del neoliberismo devono “farsi impresa” e se il neoliberismo si fa guerra devono diventare soldat3. Questo significa che non c’è spazio per relazioni mutualistiche e solidali, l’unico mantra da seguire è quello della competizione, dell’utile, del valore della nazione, violento e paternalistico al tempo stesso.

Non a caso a inaugurare il mandato del nostro governo sono stati un decreto “anti-rave” e il taglio al reddito di cittadinanza. Il disegno normativo prosegue oggi con il ddl sicurezza, che viene fatto passare d’urgenza come decreto costituendo un precedente gravissimo per le nostre istituzioni democratiche. Si tratta di un piano che trasversalmente copre diversi ambiti: criminalizzazione delle occupazioni, cooperazione tra università e servizi segreti, galera per chi organizza un picchetto, colpevolizzazione dei soggetti migranti, arresto per chi blocca il traffico e, come se tutto ciò non bastasse, le forme di solidarietà, anche con i detenuti, vanno completamente bandite. Il disciplinamento della devianza fa il paio con il progetto neo-autoritario che colpisce preventivamente, attraverso la paura, qualsiasi forma di conflitto e dissenso rispondendo alla necessità del governo di mantenere saldo il dominio, senza avere un’egemonia reale, come la cosiddetta crisi politica e della rappresentanza ci dimostra. L’assenza di egemonia emerge anche sul terreno della guerra e del riarmo, verso cui nei sondaggi la netta maggioranza del Paese si posiziona contrariamente. Convertire la società a favore di un assetto maggiormente bellicista, fatto anche di misure di austerity economica e di mobilitazione simbolica, non è poi un terreno così neutro e piano.

Il regime di guerra è un campo in formazione, tesse e riannoda i fili con ciò che c’era prima intensificandone gli aspetti più brutali, con l’obiettivo di portare ordine. Davanti a questo mutamento in continuo assestamento si aprono spazi di possibilità. Superare il vertenzialismo connettendo le differenze, rompere i campi degli schieramenti, riappropriarci e risignificare le pratiche di sottrazione, uscire dagli isolamenti che le forme di dominio producono non sono semplicemente slogan, ma gli orizzonti di organizzazione entro cui potremo giocare questa partita.

Immagine di copertina di Marta D’Avanzo

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